Riceviamo e pubblichiamo:

È Pasqua, direttore, mi consenta un pensiero “politico” che potrebbe “risuonar fazioso”, ma che in realtà non lo è affatto (e, a dirla tutta, non è nemmeno politico strictu sensu); vuole solo essere il pensiero libero – e oserei dire liberale – di chi detesta ogni forma di razzismo, di pregiudizio, di moralismo. Ciò che subisce chi è stato incarcerato e quel carcere se lo porta dietro per sempre.

Il carcere “croce eterna d’una infamia senza uscite”

Non come segno indelebile nella coscienza, non come insegnamento di vita, non come errore da cui ripartire, non come colpa espiata eppur costantemente presente; ma come croce eterna d’una infamia senza uscite.

Un politico, un ragazzo qualunque, un professionista, un nulla tenente. Non c’è distinzione, quella croce è uguale per tutti e pesa. Non smette mai di pesare, perché c’è sempre qualcuno che non smette mai di farla pesare.

È Pasqua, sì. Cristo risorge e piange quei poveri cristi che non risorgono mai. Non possono, non è loro consentito, sono stati in galera e lì devono marcire, per sempre. Quelle sbarre se le portano addosso, sono croci invisibili su cui i puri sputano sentenze già passate in giudicato e che mai passeranno di moda.

Le sbarre che generano “razzismo”

Quelle sbarre sono negre, generano razzismo ed emarginazione a tutti i costi, chi ci sta dietro puzza d’indegnità, chi ne esce si porta addosso l’olezzo. Per sempre. Perché i nasi turati e i musi storti e gli occhi sgranati fanno ben più breccia di due braccia aperte; e di menti spalancate.
Le sbarre sono negre, la loro sporcizia è negra, il loro marchio pure: è un tatuaggio – negro – sulla pelle d’ogni Cristo.
È il razzismo che non c’è: seconda (forse quinta) stella a destra, o a sinistra (dipende dal vento che tira), e poi dritto fino alla notte dei templi. Dove un solo Dio è adorato; ha la testa di sciacallo, ricorda una certa antica divinità, ma non è egizio, è italianissimo ed è modernissimo. Ha tanti nomi, ha tanti cieli, ha tante lune storte e pochi soli in tasca; ma non ha dimora. Vive nella dita puntate, si nutre di slogan, s’abbevera nei pozzi avvelenati. E non è di destra e non è di sinistra. E non ha un colore, però odia le sbarre negre. Ama invece gli sciacalli, suoi consimili, e chiede loro continui sacrifici di umanità.
Sì, perché non c’è sbarra negra dietro cui non sia battuto un cuore, non sia pulsata una passione e non abbia pesato il rimpianto; non c’è sbarra oltre cui non sia volato un sogno, non sia andata un’idea, un pensiero, un’immaginazione.

La filosofia dello sciacallo

Ma lo sciacallo è lì, fuori ad aspettare il Cristo che esca. Per lo sciacallo è fine pena mai, qualunque sia la pena, quantunque misero sia il suo fine. Per lui le sbarre sono negre e chi ne esce merita solo un eterno semaforo rosso e macchine in fila a cui elemosinare invano. Elemosinare null’altro che una seconda chance.
È il razzismo delle sbarre, più odioso d’ogni altra forma d’intolleranza, perché ragionata, architettata, elucubrata.
Non è erbaccia spontanea, non è il frutto acerbo dell’ignoranza, non è odio irrazionale verso l’altro. Peggio.

Qualunquismo e demagogia

È oppio della mente, è un intruglio di qualunquismo e demagogia che genera indipendenza dagli eterni immorali. Loro. Gli ex carcerati: anime inquiete che vagano alla ricerca di un reinserimento/riscatto che è, anzi dovrebbe essere, la stessa “ragione sociale” della pena.
Cesare Beccaria ci ha insegnato ad essere contro la pena di morte, qualcuno deve ancora imparare ad essere contro gli ergastoli della coscienza.
Quella no, non può essere rinchiusa, neppure per un minuto. E non può sottoporsi al giudizio di altre sue pari, magari più sporche, forse solo più fortunate. Chi può saperlo, se non Dio?
Già Dio, il nostro Dio, che è morto sulla croce e che risorge … lui sì, gli ex carcerati no. La loro croce dura per sempre. Perché così vuole certo mainstream socio-cultuale, perché così han deciso le Erinni del giustizialismo, perché è su quest’acqua torbida che si lavano mani pulite e bocche infuocate.
Non c’è perdono, non c’è riscatto, non c’è espiazione, non c’è ritorno alla normalità. Ci sono solo quelle sbarre negre che Rebibbia Golgota conficca per sempre nei cuori e nelle menti arrugginite dei moderni farisei.
Voltaire si rivolterebbe nella tomba, De Tocqueville la toccherebbe piano ma ne sarebbe indignato, Mandela non le manderebbe a dire.

Chi ha pagato ricomincia

Chi sbaglia paga: è la legge. Chi ha pagato, ricomincia: è la vita. Chi ricomincia, deve poter affidare il suo nuovo cammino a passi liberi, dalle catene del pregiudizio: è la civiltà.
Ma il pregiudizio ha ferrea memoria, direbbe Seneca, ed ecco che il razzismo che non c’è, questo odioso jail shaming attecchisce, germogliando fiori carnivori.
Fiori puzzolenti, che ammorbano i campi, che addobbano altari funerei per condannati a morte comunque, che cambiano petali come nelle mute più immonde (ma non cambia la musica) e che non muoiono mai.
Quella musica è un requiem, stonato, lamentoso, eppure gettonato, perché il jukebox dell’infamia ha sempre una moneta da inghiottire e un Cristo su cui sputare, sempre un disco rotto da far partire, sempre uno spirito da annientare.
Sempre lo stesso ritornello, orecchiabile e suadente, per quanto macabro. Pieno di like ed emoticon d’approvazione, miele per le orecchie dei leoni da tastiera e degli urlatori di bandiera.
È sì, direttore. Le sbarre sono negre; non hanno colore, ma sono negre. E “tutti in fila, ad aspettare che scatti quel semaforo”. E che il dibattito politico, culturale e sociale di questo nostro Paese faccia uno scatto… in avanti.

Buona Pasqua, direttore

Eusebio D’Alì

Articoli correlati