Questa notte un gruppo di attivisti per il clima del “collettivo Studenti Palermitani” ha messo in atto un’incursione presso il punto vendita di H&M di via Ruggero Settimo, a Palermo. “Fast fashion kills” è l’enorme scritta che si legge sulla vetrina del negozio della catena internazionale. Una denuncia contro l’industria tessile in vista dello sciopero globale per il clima di domani, 22 ottobre, giornata in cui si svolgerà un corteo studentesco con partenza alle ore 9 da piazza Verdi.
Il perché del “raid”
Il bersaglio degli studenti e delle studentesse non è casuale: H&M rappresenta uno dei simboli dell’industria della moda “fast”, la moda del “made in Bangladesh”, dei capi a 5,99 euro e del Black Friday. La moda basata sulla produzione di abiti di bassa qualità a prezzi molto modesti, che prevede il lancio di nuove collezioni continuamente e in tempi brevissimi. Un metodo di produzione che più volte è stato stigmatizzato soprattutto per i danni sociali che provoca: in tutto il mondo ci sono milioni di lavoratori, compresi gli impiegati nei negozi dei grandi brand, che lavorano in condizioni di sfruttamento, precarietà, con salari bassi o come tirocinanti non pagati.
Ma ci sono anche danni ecologici
“Meno spesso, invece, si pone l’accento sui danni ecologici – si legge in una nota diffusa dal ‘collettivo Studenti Palermitani’ -. L’industria della moda è un’industria globale dal valore di 2,4 trilioni di dollari, che impiega circa 50 milioni di persone ed è considerata una delle industrie più inquinanti al mondo. È la seconda più inquinante dopo quella petrolifera. Basti pensare che il solo trasporto dell’industria dei jeans produce il 13% delle emissioni annue totali di Co2. E che solo per la realizzazione di una t-shirt servono 2.700 litri d’acqua, pari al fabbisogno di una persona per tre anni. In più, si prevede che le emissioni di Co2 prodotte dall’industria della moda aumenteranno del 60% nei prossimi 12 anni”.
Le sostanze tossiche
Sottolineano anche un altro enorme danno ecologico, collegato alle risorse idriche, che riguarda lo smaltimento di tutte le sostanze tossiche con cui vengono trattati i capi di abbigliamento. Molte fabbriche espellono le acque inquinate nelle risorse idriche naturali avvelenando fiumi, mari e acque sotterranee. “Il 20% dell’inquinamento delle risorse idriche mondiali – aggiungono – dipende dall’industria della moda. La pericolosità di questi scarichi ha effetti negativi sull’uomo, sugli animali e sull’ambiente circostante. La moda è direttamente collegata allo sfruttamento della terra e al processo di perdita della biodiversità attraverso lo sfruttamento del suolo. Questo tipo di produzione ha portato all’incremento dei consumi di indumenti in modo esponenziale: in Occidente compriamo abiti per il 400% in più rispetto a venti anni fa. Le grandi aziende hanno delocalizzato i centri di produzione nei paesi sottosviluppati, dove la carenza di legislazione rispetto alla tutela ambientale e a quella lavorativa consente di produrre in modo devastante e col massimo sfruttamento di forza lavoro”.
Tema surriscaldamento
Sul tema del surriscaldamento globale e del mutamento climatico, il 29 ottobre partirà la Cop26, la riunione in cui i leader mondiali si incontrano al fine di trovare soluzioni concrete all’emergenza climatica. “Ci scagliamo contro un sistema che produce nocività e devastazione – precisa sempre il collettivo -. Contro le Cop, che rappresentano ormai palcoscenici in cui governanti e signori del fossile dichiarano di voler salvare il mondo, ma continuano a programmare politiche che guardano al profitto e non alla salute di territori e abitanti, che di certo non mettono in discussione modelli di produzione devastanti come quello dell’industria della moda. Il 22 ottobre è lo sciopero globale per il futuro, ci vediamo in piazza Verdi, alle 9 davanti al Teatro Massimo”.
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