“Il mio socio mi disse che i fratelli Aprile si erano lamentati perché avevamo venduto una partita di angurie senza il loro permesso e volevano un risarcimento”. Ad affermarlo, al palazzo di giustizia di Siracusa, è stato un imprenditore agricolo di Pachino, Antonino Nicastro, nel corso processo denominato Araba Fenice, scaturito dall’inchiesta della Procura distrettuale antimafia di Catania sul presunto controllo del mercato ortofrutticolo di Pachino da parte di un’azienda, la Fenice, nell’orbita di Salvatore Giuliano, indicato dalla Dda di Catania, come il boss di Pachino. Secondo l’accusa, sodali a Giuliano sarebbero stati i fratelli Aprile, anch’essi sotto processo.

L’imprenditore pachinese, che aveva presentato una denuncia agli agenti di polizia dopo quel presunto tentativo di estorsione, è stato messo a confronto, nell’udienza in Corte di Assise, con il suo ex socio in affari,  Corrado Barrotta, ma le dichiarazioni di quest’ultimo sono state di tutt’altro avviso. Pur confermando la visita dei fratelli Aprile nella loro azienda, ha ribadito di non aver avuto la sensazione di essere stato minacciato dagli imputati. A quell’incontro non era presente Nicastro, i dettagli furono riferiti dal socio ma sui contenuti i due teste hanno riferito circostanze diverse. Il pm Alessandro La Rosa, leggendo le dichiarazioni rilasciate da Nicastro nella sua denuncia, ha riferito che gli Aprile avrebbero voluto da due imprenditori agricoli un risarcimento per aver smerciato delle angurie senza il loro consenso.

L’inchiesta

Nel luglio del 2018 furono tratte in arresto 19 persone che avrebbero esercitato, secondo l’accusa, un potere intimidatorio nei confronti dei produttori agricoli, praticamente costretti a consegnare la merce ai vertici dell’azienda La Fenice. Che, a loro volta, con metodi poco ortodossi, secondo gli inquirenti, avrebbero convinto i centri di distribuzioni ed altri commercianti a comprare da loro. Si sarebbe creato un cartello che gli inquirenti avrebbero scoperto grazie alle intercettazioni telefoniche. Secondo la Dda di Catania, il gruppo avrebbe anche preteso il pagamento di una provvigione come corrispettivo di una presunta mediazione contrattuale svolta tra produttori e commercianti.