“La lettura della sentenza manifesta le evidenti difficoltà dei giudici di primo grado nelle operazioni di analisi e valutazione dell’ imponente materiale probatorio acquisito nel corso del processo. E la spia di tale difficoltà si ricava, oltre che da un estenuante ricorso al ‘copia e incolla’ delle precedenti sentenze che hanno definito i processi già celebrati per l’accertamento delle responsabilità per la strage di via D’Amelio, da contraddizioni e profili di illogicità che talvolta la motivazione presenta”. È il duro giudizio della Procura di Caltanissetta sulla sentenza del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio concluso con la prescrizione del reato di calunnia aggravato contestato ai poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei e l’assoluzione del terzo poliziotto imputato, Michele Ribaudo.
I pm hanno depositato il ricorso in appello contro il provvedimento. La Procura parla di “vizi del ragionamento che sono conseguenza di una parcellizzazione del quadro probatorio offerto e di una scelta di semplificazione consistente nell’adagiarsi, nonostante gli elementi di novità acquisiti nell’ambito del presente procedimento, alle conclusioni già raggiunte dai giudici del ‘Borsellino quater’ su circostanze rilevanti per l’accertamento delle responsabilità penali”.
Procura, “La Barbera agì per salvare terzi coinvolti”
La Procura di Caltanissetta nell’appello alla sentenza sul depistaggio delle indagini sull’attentato di via D’Amelio scrive anche: “E’ dimostrato in maniera incontrovertibile il coinvolgimento nella strage del 19 luglio 1992, costata la vita al giudice Paolo Borsellino e alla sua scorta, anche di soggetti estranei all’associazione mafiosa ‘Cosa nostra’, affermazione che non può nemmeno essere messa in discussione dal mancato accertamento di specifiche responsabilità penali”.
Per la Procura le prove del coinvolgimento di soggetti estranei alla mafia sarebbero la “tempistica della strage che non coincide con gli interessi della consorteria mafiosa e la strana presenza di appartenenti al servizio di sicurezza attorno alla vettura blindata del magistrato negli attimi immediatamente successivi all’esplosione”.
Proseguono i pm: “La valutazione complessiva degli elementi non lascia dubbio sulla esistenza di cointeressenze con centri di potere esterni alla mafia nella deliberazione della strage di via D’Amelio e nella successiva partecipazione alle fasi esecutive di appartenenti ad apparati istituzionali”.
Secondo la Procura inoltre il depistaggio delle indagini sull’attentato, che portò all’incriminazione di innocenti e che è stata contestata ai tre imputati, è imputabile al dottor La Barbera (allora capo del pool che indagava poi deceduto ndr) e ha avuto come finalità principale proprio quella di occultare le responsabilità esterne. Un ragionamento che, secondo i pm, contrasta con la ricostruzione della sentenza di primo grado che esclude che La Barbera abbia agito per favorire i boss e che porta alla esclusione dell’aggravante anche per i poliziotti imputati e alla conseguente prescrizione dei reati a loro contestati.
“La fotografia del dottor La Barbera che le risultanze probatorie ci consegnano” secondo i magistrati è quella “di un ufficiale di polizia giudiziaria in realtà legato mani e piedi al servizio segreto civile, contrariamente a quanto sostenuto in maniera incomprensibile dal tribunale”.
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