Salirà sul banco dei testimoni, salvo sorprese dell’ultim’ora, l’11 novembre prossimo. Nell’aula bunker del carcere Ucciardone che ospitò il primo maxi-processo a Cosa nostra, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Silvio Berlusconi deporrà davanti ai giudici della corte d’assise d’appello che, dopo le durissime condanne del primo grado, sono chiamati a scrivere la storia degli anni delle stragi del ’92 e della cosiddetta trattativa, il presunto patto tra pezzi dello Stato e i clan negli anni delle bombe mafiose.

Dopo aver ricevuto la nota della procura di Firenze che ha svelato che l’ex Cavaliere è indagato per le stragi di Roma, Firenze e Milano del ’93 e per i falliti attentati a Maurizio Costanzo e all’Olimpico, la corte ha deciso di sentire il fondatore di Forza Italia come teste assistito.

Uno status che prevede la presenza del legale e dà all’ex cavaliere la possibilità di non rispondere a eventuali domande che comporterebbero dichiarazioni auto-indizianti.

A citarlo è stata la difesa dell’amico Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia condannato a 12 anni in primo grado per minaccia a Corpo politico dello Stato e ritenuto l’emissario di Cosa nostra del dopo Ciancimino. Sarebbe stato lui a farsi ambasciatore delle minacce dei boss allo Stato quando Berlusconi era premier. Citato, l’ex premier aveva fatto sapere di avere impegni istituzionali legati alla sua carica di parlamentare europeo. Oggi, dopo la risposta sul suo stato di indagato a Firenze in procedimenti evidentemente connessi a quello sulla trattativa, visto che le bombe del ’93 sarebbero state il messaggio lanciato dai boss per fare capitolare lo Stato, ha incassato il poter deporre da teste assistito. Potrà restare in silenzio, ma se parla non potrà mentire. In qualità di teste “puro” ha invece testimoniato all’udienza di oggi l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro. L’ex magistrato è stato citato dai legali dell’ex generale del Ros Mario Mori, che da sempre sostengono che il movente dell’omicidio del giudice Paolo Borsellino non sarebbe legato alla scoperta della trattativa, ma all’inchiesta sugli appalti che questi stava conducendo. “Sono convinto che Paolo Borsellino fu ucciso perché indagava sulle commistioni tra la mafia e la gestione degli appalti. – ha detto ai giudici l’ex Pm – L’indagine mafia-appalti fu fermata come fu fermata ‘mani pulite'”. E ha ricordato che davanti alla bara di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino gli chiese di vedersi per parlare delle indagini sugli appalti e dei collegamenti tra quello che veniva fuori da Mani Pulite sulla illecita spartizione dei lavori pubblici e quel che accadeva in Sicilia. “Dobbiamo fare presto, dobbiamo vederci o sentirci nei prossimi giorni. Dobbiamo trovare il sistema”, gli avrebbe detto Borsellino. Ma il tempo non bastò. Il 19 luglio, dopo meno di due mesi dal tritolo di Capaci, anche Borsellino venne ucciso. (ANSA).

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