Il gup di Palermo ha condannato a 8 mesi di carcere e 800 euro di multa per corruzione elettorale Salvatore Ingrassia e Antonio Fiorentino. Per lo stesso reato è stato condannato a 6 mesi e 600 euro di multa il deputato regionale siciliano Roberto Clemente, mentre è stato assolto dall’accusa di peculato Marcello Macchiano, presidente del Banco opere di carità, accusato di peculato.

Il processo, che si svolgeva in abbreviato, è una tranche di un procedimento penale su presunti casi di corruzione elettorale che, nel 2015, sfociò in diversi arresti. Alcuni indagati hanno patteggiato la pena , altri sono a processo con rito ordinario. L’indagine, denominata Agorà, è stata coordinata dalle pm Amelia Luise e Anna Maria Picozzi.

L’inchiesta coinvolse 28 persone tra cui l’ex deputato regionale Nino Dina che, nel 2015, presiedeva la commissione Bilancio all’Ars. Con Clemente e Dina finirono agli arresti domiciliari anche l’ex parlamentare di Grande sud Franco Mineo e Giuseppe Bevilacqua, personaggio centrale dell’inchiesta che fallì per una manciata di voti l’elezione al consiglio comunale di Palermo ma che, secondo l’accusa, avrebbe cercato di far fruttare il ‘tesoretto’ nella successiva campagna elettorale per le regionali.

Il metodo Bevilacqua non era molto dispendioso. “150 euro per  trenta voti”, spiegava in un’intercettazione. Praticamente 5 euro a voto. Secondo la Procura, Bevilacqua avrebbe utilizzato per la sua campagna elettorale per le comunali 2012 anche i generi alimentari del “Banco opere di carità”, presieduto da Macchiano, destinate alle famiglie povere di Palermo, all’insaputa dei volontari. Bevilacqua regalava pacchi di pasta, oppure li vendeva a prezzi stracciati agli stessi poveri che ne avrebbero dovuto usufruire. Il parmigiano, invece, lo teneva perse’.

Nel quartiere Tommaso Natale il presunto mafioso Calogero Di Stefano avrebbe fatto avere a Bevilacqua 770 voti nel 2007. “Il numero uno dei voti è lui”, dice Bevilacqua al suo interlocutore in un’intercettazione. “E’ lui il mio primo capo elettore – prosegue – non solo a Tommaso Natale, ma di tutta Palermo”.

Alle elezioni regionali nel 2012 per ottenere le preferenze raccolte da Bevilacqua alle comunali, Roberto Clemente (che poi sarà eletto all’Ars) gli promette di dimettersi da consigliere comunale, permettendogli così di entrare a Palazzo delle Aquile (Bevilacqua era il primo dei non eletti). Promesse mai mantenute.
Più concrete sarebbero state le offerte di Nino Dina e Franco Mineo, il primo poi eletto tra le fila dell’Udc, l’altro invece non riuscì a ottenere il seggio a Sala d’Ercole. In un’intercettazione telefonica del 27 luglio del 2012, Giuseppe Bevilacqua racconta
alla sorella Teresa che in occasione di un incontro avuto la sera precedente con Dina, questi gli avrebbe garantito che avrebbe fatto avere un “incarico di 15 mila euro a qualcuno della famiglia” con un diploma o una laurea, specificando che l’attribuzione dell’incarico non comportava l’obbligo di svolgere effettivamente la prestazione lavorativa. Ma Bevilacqua preferisce trattare anche con Mineo.

Quest’ultimo, in cambio dell’appoggio di Bevilacqua, avrebbe promesso incarichi alla Regione e l’aggiudicazione di un appalto a favore dell’associazione culturale “I Fiori blu di Sicilia”, legalmente rappresentata dalla sorella, Teresa Bevilacqua.

 

“Sono amareggiato per la sentenza di condanna. Al di la’ dei fatti contestati – rispetto ai quali ribadisco la mia totale estraneita’ – appare a dir poco paradossale che una mera ipotesi di accordo di natura politica – peraltro mai realizzatosi – oggi, nel nostro Paese, venga equiparata ad un reato – commenta Roberto Clemente – . Analogamente, secondo questa impostazione, tutti i candidati sindaci e i loro assessori designati, con le promesse di voto che realizzano tra loro in questa campagna elettorale potranno essere passibili del reato di voto di scambio o corruzione elettorale. Confido nei successivi gradi di giudizio per dimostrare la validita’ delle mie ragioni e la mia innocenza”.

“Siamo sorpresi dalla decisione del GUP, sicuramente oggetto di una errata interpretazione della legge penale – spiega il suo legale Marco Clementi -. Le risultanze processuali, infatti, hanno fatto emergere esclusivamente l’esistenza di un contatto tra il Clemente ed il Bevilacqua, nel corso del quale veniva prospettata la possibilità, da condividere eventualmente con i vertici del partito (al quale appartenevano entrambi all’epoca dell’accertamento dei fatti), delle dimissioni del Clemente da consigliere comunale in caso di sua vittoria alle elezioni regionali, circostanza che avrebbe portato come conseguenza il subentro del Bevilacqua al consiglio comunale, in quanto ‘primo dei non eletti’. Condotta questa, che risulta assolutamente lecita e che si ascrive alle fisiologiche dinamiche organizzativo-politiche comuni a tutti i partiti. Con la sentenza oggi emessa, invece, il giudice ha erroneamente inquadrato la condotta sopra descritta, nella fattispecie di reato prevista dall’art. 86 del D.P.R. 570/60, che punisce chiunque “dà, offre o promette qualunque utilità ad uno o più elettori”, il che appare in prima battuta del tutto ingiustificato, non essendo emerso alcun accordo illecito del Clemente con gli eletto ri ma, si ribadisce, un normale accordo politico ed organizzativo di partito (accordo che, peraltro, non è mai stato realizzato, tanto che il Clemente, ad oggi, riveste ancora la carica di consigliere comunale). Da sottolineare, inoltre, che il GUP ha diversamente qualificato il fatto ascritto al Clemente Roberto dichiarandolo responsabile non del reato di cui all’art. 96  DPR 361/57, ma del reato di cui all’art. 86 DPR 570/60, che non prevede la possibilità di applicare alcuna misura cautelare, misura alla quale invece è stato sottoposto l’ON. Clemente. Attendiamo, dunque, il deposito delle motivazioni per proporre appello”  conclude l’avvocato.

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