Ciascun libro rispecchia chi lo scrive; ma in alcuni l’intima corrispondenza tra l’opera e l’autore è più marcata, in altri meno. “Alchimia della polvere. Aforisminattuali con Autoritratto feroce” di Tommaso Romano, edito da All’Insegna dell’Ippogrifo, nella ricca e variegata produzione del noto uomo di cultura palermitano, è il suo libro più personale, più di tutti espressione della sua personalità complessa e semplice come quella, in genere, degli uomini refrattari alle omologazioni.

“Alchimia della polvere” è una raccolta di pensieri espressi in poche righe che l’autore, immune da manifestazioni di autocompiacimento e non privo di spirito autocritico, si guarda bene dal definire “aforismi” (sebbene alcuni ne possiedano i crismi) ricordando nella nota introduttiva, riguardo a essi, la felicissima definizione di Nietzsche: “La capacità di dire con una frase tutto quello che c’è scritto in un libro, e anche quello che non c’è scritto”.

Scrivere “aforismi”, insomma, è un’impresa titanica, riservata agli eletti: pochissimi sanno condensare in due battute – espresse con efficace eleganza – le profondità dell’anima. E se gli autori di “aforismi” – quelli s’intende che appartengono all’olimpo della letteratura – si contano sulle dita delle mani, non molti sono i suoi lettori.

L’aforisma è un genere, forse ancor più della poesia – anch’essa sintesi estrema dei segreti dell’anima -, assai esigente sia per chi tenta di scriverli sia per chi li legge. Non è un caso che Tommaso Romano – poeta, saggista, scrittore, animatore culturale di lungo corso – abbia voluto rendere, in un libro nato dal culto dell’”aforisma”, una sorta di confessione: è segno che il suo spirito aleggia verso l’alto, il suo sguardo guarda il cielo, la sua interiorità si rifugia nella contemplazione del sublime.

Ciò peraltro emerge dai pensieri di “Alchimia della polvere”: le relazioni, la lettura, la musica ci aiutano a raccoglierci in noi stessi e, con la lentezza, ci salvaguardano dalla trita ritualità di una quotidianità resa volgare dall’aggressione mediatica.

“La non curanza del frivolo è parte fondante della necessaria cura di sé”: occorre difendersi dalle tentazioni delle banalità in agguato ricorrendo all’intelligenza cui si accompagnano l’ironia e l’autoironia e la consapevolezza di potersi contraddire; così come non ci si deve fare irretire dagli ideologismi, dai pensieri preconfezionati, dalle correnti modaiole: “pensare” ha un prezzo e può costringere persino a rimanere isolati, e però la solitudine ha un suo gusto oltre che un suo spesso ignorato valore: sa anche offrire doni che pochi sanno cogliere.

Romano si definisce né pessimista né ottimista, ma ammonisce: “E’ terapeutico non essere ottimisti” e, sebbene diffidi dai sentimentalismi, crede nell’amore: “L’amore può essere una illusoria e romantica commedia. Ma conviene scommetterci, come in Dio”. E, d’altra parte, per Romano l’amore è, insieme al culto della bellezza e alla fede, l’essenza del nostro essere nel mondo: è da superbi e supponenti negare il mistero dell’anima e dello spirito.

“Alchimia dello spirito”, titolo dai tanti richiami cui si sofferma l’autore in una nota conclusiva, può a buon diritto definirsi un manifesto del pensiero libero e del non conformismo. Ne fa parte, oltre che la raccolta di pensieri, L’”Autoritratto feroce”, una candida descrizione che l’autore riserva a se stesso senza ammettere alcun sconto e che, a ben guardare, non costituisce altro che un corollario di quanto già rivelato di sé, felicemente, negli “Aforisminattuali”.

Già, inattuali, non tanto e non solo per un richiamo al suo tanto caro Nietzsche, ma perché Romano è conscio, e di ciò di certo non si duole, di vivere un tempo in cui non si ritrova, né al riguardo lo soccorre il suo saldo legame alla tradizione.

Che è anche appartenenza alla sua Palermo ( “La luce della bellezza, la fedeltà… e il mare contemplato dal Foro Italico di Palermo dona e trasmette ‘la incomparabile sfericità della terra’”) e salda adesione alle radici della più alta letteratura espressa in Sicilia (Pirandello e Tomasi di Lampedusa primi tra tutti) che non rende la sua scrittura, “incerta e sospesa tra filosofia e poesia”, solitaria, come osserva Roberto Pazzi nella sua impareggiabile prefazione.

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