Quel pensionato milanese era abitato, quasi interamente, da meridionali. Di estrazione eterogenea per ceto ed età: studenti universitari, docenti, bidelli, funzionari, operai. Tutti con la valigia sotto il letto, pronti a riempirla per l’agognato ritorno nella propria terra.

“A Milano non fa freddo” intitolava Marotta una sua silloge di racconti. Aveva ragione: nella città della Madonnina, a dispetto delle condizioni climatiche, il calore, quello umano, non mancava e non manca. E’, soprattutto, il calore della solidarietà dei meridionali, specie di quelli che vivono in una condizione di perenne precarietà esistenziale, con l’ossessione del richiamo dei luoghi nativi.

Sono passati ventisette anni da quell’assolato pomeriggio domenicale. Col mio amico Santino, uno studente di Ingegneria di Messina, tentammo di sfidare la noia e l’afa. Partendo dal pensionato ci incamminammo senza una meta. Nel deserto dell’asfalto bollente scambiammo poche battute.

“Se vuoi potremmo arrivare sino a Piazza del Duomo” propose Santino senza convinzione. Ma le gambe erano molli, la sete si faceva sentire, e l’umore non era il migliore. Dopo dieci minuti dietrofront: al pensionato non c’era aria condizionata, ma sicuramente faceva meno caldo. E poi lì dentro avemmo trovato Pasquale, Carmine e gli altri della compagnia dei napoletani. A loro non mancava mai il buonumore e sapevano contagiarlo agli altri. Magari fregandoci, come regolarmente accadeva, col gioco delle tre carte.

Nella hall del pensionato per primo scorgemmo Pasquale, il più scalmanato dei napoletani. Provammo un sorriso, che non fu ricambiato. Pasquale era pallido in viso, una smorfia – mai vista prima – storceva il suo muso. Dietro di lui, sparpagliati nel salone, una decina di altri reclusi-vacanzieri del pensionato. Tutti accigliati. Nessuno parlava.

Lì per lì non comprendemmo le ragioni di quell’aria da funerale. Poi Rocco, un contadino dalle mani callose che aveva lasciato la campagna calabrese per un posto avventizio di bidello, ci pose una mano sulle spalle e, con voce più balbuziente del solito, sussurrò: “Hanno ammazzato Borsellino”.

Anch’io e Santino vagammo almeno per un quarto d’ora lungo la hall senza profferire parola. Ci guardavamo tra noi, increduli e smarriti. Qualcuno aveva gli occhi lucidi. Ci attendeva la sala con il televisore, che si riempiva in tutti i suoi posti a ogni puntata della “Piovra”.

Anche quel pomeriggio le sedie di legno, le une attaccate alle altre, da cinematografo di terzo ordine erano tutte occupate. Ma il piccolo schermo stavolta proiettava una strage vera, paradossalmente più spettacolare e cruenta di quelle della fiction.

La sera non giocammo a carte, e neppure a scacchi. Sarebbe stato un sacrilegio, la violazione del lutto che albergava in tutti noi. Si discusse, anche animatamente, si maledì la mafia e si inveì contro lo Stato che non aveva protetto Borsellino come doveva.

La tristezza del pomeriggio si trasformò all’imbrunire in collera. Collera civile. Tra noi tutti, laureati e semianalfabeti, costretti a lasciare la propria terra e i propri affetti nella nebulosa precarietà meneghina, la solidarietà fu quel giorno ancora più forte.

Paolo Borsellino, uomo del Sud che contrastava i tentacoli della “Piovra” –quella vera, più efferata di quanto non lo fosse nello sceneggiato televisivo -, era stato da noi eletto paladino del riscatto da una condizione subalterna alimentata dalla malavita e dalla corruzione.

Il suo volto da sceriffo buono ci era familiare, i suoi baffi accentuavano lo spirito di legalità che lo illuminava. Come pure le facce dei suoi angeli custodi, barbaramente uccisi, assomigliavano alle nostre.
Quando comparve il poster con le immagini sorridenti di Falcone e Borsellino pretendemmo che venisse affisso nella sala del pensionato dove ci riunivamo.

Andato via da quel pensionato, non ci sono più ritornato. Ma sono sicuro che quel poster è ancora lì a irradiare di luce quelle pareti altrimenti opache. Quei sorrisi sono stati immortalati dalla fotografia. E ancora oggi, e così pure domani, Falcone e Borsellino sono giovani e belli. Sì, perché, come canta Guccini, “gli eroi sono tutti giovani e belli”.

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