Sono iniziati gli interrogatori di garanzia nei confronti degli indagati coinvolti nell’operazione antimafia denominata  San Paolo,  conclusa dai carabinieri di Siracusa con 24 misure cautelari, di cui 19 in carcere e 5 ai domiciliari. Gli indagati sono accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e usura, tentata estorsione ed esercizio abusivo dell’attività finanziaria, aggravati dalla finalità di agevolare il clan Aparo nel territorio di Floridia e Solarino.

Ha deciso di parlare Giuseppe Calafiore, 52 anni, difeso dall’avvocato Franca Auteri: l’uomo, indicato dai magistrati della Dda di Catania al vertice dell’organizzazione insieme a Massimo Calafiore, ha reso dichiarazioni spontanee. In sostanza, il cinquantaduenne avrebbe “chiarito la sua posizione”, “ricostruendo i rapporti con altre persone” ma sostenendo che “i fatti contestati non rispecchiano la realtà”. Dichiarazioni più o meno analoghe a quelle di Salvatore Giangravè, 57 anni, difeso dagli avvocati Paolo e Gabriele Germano, che rappresentano anche Angelo Vassallo, 57 anni che, però, ha fatto scena muta. Ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere anche Massimo Calafiore, 52 anni, difeso dall’avvocato Domenico Mignosa.

Dalle indagini, coordinate dai magistrati della Procura distrettuale antimafia di Catania, era Massimo Calafiore il reggente della cosca, secondo le indicazioni del boss Antonino Aparo, rinchiuso nel carcere di Opera, a Milano, che, comunicava con lui, attraverso le lettere. Il braccio destro di Massimo Calafiore era Giuseppe Calafiore, al di sotto di essi c’erano Salvatore Giangravè e Angelo Vassallo, che, inizialmente contrari alla reggenza dei Calafiore, erano stati successivamente convinti dal boss.

L’indagine ha avuto origine dopo alcuni incendi avvenuti nel comune di Floridia ai danni delle attività commerciali, tutti accomunati dallo stesso modus operandi. I roghi venivano appiccati agli esercenti che erano caduti nella rete dell’usura: alle vittime era applicati tassi di interesse mensili del 20 per cento, 240% annui.  Era Giuseppe Calafiore, secondo la Dda di Catania, a tenere la contabilità con degli appunti custoditi dalla madre, Antonia Valenti, che contenevano nomi, ammontare delle rate, date dei pagamenti, oltre ai prestiti concessi da Calafiore a titolo personale, senza il coinvolgimento del clan Aparo. Le vittime, secondo i carabinieri, pagavano con bonifici bancari o trasferimenti monetari su Postepay, oltre che con il classico metodo del trattenimento di assegni dati in garanzia per l’ammontare del prestito. In caso di inadempimento, i Calafiore, secondo la Dda di Catania, procedevano ad impossessarsi di autovetture, beni immobili e esercizi commerciali delle vittime, gettandole letteralmente sul lastrico. Per la gestione dell’usura, Giuseppe Calafiore, oltre che della madre, si sarebbe servito della compagna, Clarissa Burgio, inizialmente vittima di usura da parte dello stesso Calafiore che le avrebbe affidato tutto dopo il suo arresto per droga.

I soldi dell’usura sarebbero stati investiti per l’acquisto di partite di droga, fornite dai fornite dai catanesi, Salvatore Mazzaglia e Victor Andrea Mangano, legati, secondo la Dda di Catania, al clan etneo dei Santapaola Ercolano, gruppo di Nicolosi-Mascalucia. Una delle piazze di spaccio più importanti era quella di via Fava che, in poco meno di 4 mesi, dai calcoli dei carabinieri, avrebbe fruttato circa 350 mila euro.

Si è anche scoperto che il clan, per gli inquirenti, eseguiva attentati anche per dare il segnale della sua forza, come nel caso del proprietario di un bar di Solarino la cui auto venne incendiata perché non avrebbe fatto lo sconto sul prezzo della torta acquistata da Massimo Calafiore per il compleanno del figlio e per avergli fatto pagare il lecca-lecca comprato per la figlia. Un pub fu incendiato dopo che Giuseppe Calafiore aveva giudicato troppo caro un tagliere di formaggi ed insufficiente l’offerta del locale per via della mancanza di ostriche e champagne da lui richieste ma non disponibili. Nel corso dell’indagine è emersa altresì la figura di Domenico Russo che dopo essere rimasto vittima dell’usura dei Calafiore  sarebbe stato il mandante di una tentata estorsione ai danni di un netino che lo aveva truffato.