“Si può essere uccisi dalla mafia senza che la vittima abbia consapevolezza della colpa da espiare”, così rivelava, tra le tante cose, Buscetta. Si ha motivo di ritenere che Giuseppe Montalbano, medico condotto di Camporeale ucciso da Cosa nostra nelle campagne di quel paese il 18 novembre del 1988, fosse ignaro delle ragioni che ne decretarono la condanna a morte.

Lo si evince leggendo il libro di Mimmo Di Carlo e Valerio Montalbano “U dutturi”, che ricorda la figura del medico e le vicende che ne determinarono l’omicidio. Giuseppe Montalbano fu ucciso dalla mafia perché persona integerrima che non si piegava e mai si sarebbe piegato anche al più banale dei ricatti mafiosi e perché, nel passaggio di consegna tra una famiglia mafiosa e l’altra, la nuova famiglia egemone voleva dimostrare, con quel delitto, la propria “autorevolezza”.

“U dutturi” di Mimmo di Carlo e Valerio Montalbano è un libro di particolare interesse sotto vari profili.
Il primo: è una denuncia dell’efferatezza della mafia. Nell’interrogatorio giudiziario presente in questo singolare romanzo-verità emerge la spietata e disumana logica dei mafiosi; la ferocia di Cosa nostra qui risalta più e meglio che in dieci documentati saggi sulla criminalità mafiosa.

Il secondo: è l’esempio di come Cosa nostra può essere sconfitta. Falcone era solito ripeterlo: la mafia è un fenomeno storico e, come tutti i fenomeni storici, ha un inizio e una fine. Il libro dimostra che se a essere ucciso è un uomo che, per la sua straordinaria umanità e per il suo alto senso della legalità, gode della stima incondizionata di un’intera comunità (e così era per Giuseppe Montalbano), il consenso sociale di Cosa nostra s’incrina.

Tra le pagine di “U dutturi” si legge: “Avete fatto male i conti perché l’esempio che i paesani seguirono non fu quello che pretendeva Brusca ma quello che si ispirava alla vita del dottore Montalbano”. Tanto più che i familiari di Giuseppe Montalbano hanno voluto onorarne la memoria con due iniziative che potenziano la coscienza civile e il contrasto alla mafia in quel territorio: la costruzione di una grande croce nel luogo del delitto – “La croce della luce” – testimone della volontà di riscatto – , e l’istituzionalizzazione di una borsa di studio destinata ai ragazzi della scuola che con i loro elaborati esaltano i valori della giustizia (non diceva Gesualdo Bufalino che “per sconfiggere la mafia occorre un esercito di maestri di scuola elementare”?).

Il terzo: la Sicilia ha un numero impressionante di uomini caduti per mano mafiosa. Accanto a Falcone, Borsellino, padre Puglisi, Chinnici vi sono tantissime figure poco conosciute che hanno pagato con la vita la loro ostinata contrapposizione a Cosa nostra. Ciascuno di loro merita di essere ricordato per la sua esistenza esemplare e per il messaggio che quell’esistenza esemplare ha lasciato.

Ciò vale anche per un uomo retto e di rara bontà come Giuseppe Montalbano, un medico che dei suoi pazienti curava, “oltre la salute fisica”, “la salute morale”. Non esiste solo la macro-storia ma anche la micro-storia, quella che vede protagonisti gli uomini di tutti i giorni, quelli della porta accanto. A Camporeale in tutti è ancora vivo il ricordo di Giuseppe Montalbano, un medico, un uomo che con la sua caparbia devozione alla legalità ha contribuito all’evoluzione della storia, al progressivo indebolimento dell’arroganza mafiosa.

Peraltro “U dutturi” – impreziosito dalla presentazione della pedagogista Rosa Giglio e della prefazione del giornalista Pietro Cascio, nonché di un racconto del giovane Salvatore Maenza, vincitore della Borsa di studio Giuseppe Montalbano – si presta a una lettura scorrevole.

Racconta il viaggio della moglie e dei figli del medico a Roma, dove la Cassazione emetterà il verdetto definitivo di condanna dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio. Lo racconta mettendo in risalto la loro tensione in vista di una decisione che costituisce il riconoscimento del sacrificio per la legalità di Giuseppe Montalbano. La tecnica narrativa è semplice ed efficace basata come è sui dialoghi. Dialoghi nei quali non mancano, a smorzare l’apprensione che attanaglia i familiari, salutari intervalli di sobria ironia.

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