Matteo Messina Denaro ha un rapporto sicuramente stretto con la provincia agrigentina. I suoi affari sono penetrati ampiamente nel tessuto socio-economico di questo territorio, facendo emergere una volta di più l’ascesa del superlatitante che dalla provincia di Trapani, suo territorio di nascita, è riuscito a creare una rete di interessi su almeno tutta la Sicilia occidentale. È quanto emerge dalle oltre mille pagine di motivazioni depositate nell’ambito della sentenza emessa dalla corte d’assise di Caltanissetta nei confronti proprio del boss, condannato all’ergastolo con l’accusa di essere tra i mandanti delle stragi del 1992 di Capaci e via d’Amelio.

Tensione fra famiglie mafiose

In particolare, come riporta il sito d’informazione “Grandangolo”,  in questa ricostruzione si fa molto riferimento ai territori di Sciacca, Ribera, Montevago, Sambuca di Sicilia e i territori del belice. Tra le vicende ricostruite ci sono le tensioni tra la famiglia mafiosa di Sciacca e quella di Ribera, su cui Messina Denaro interveniva nel tentativo di mantenere lo status quo e accontentare gli interessi di tutti.

Il piano per uccidere agenti penitenziari

Figurano anche i progetti di uccidere alcuni agenti penitenziari in servizio al carcere di massima sicurezza di Pianosa dove erano reclusi alcuni espone ti di spicco mafiosi siciliani. Il motivo? A dire di Messina Denaro e compagni di merende, secondo quanto trapelato da uno dei summit mafiosi, alcuni di questi agenti avrebbero maltrattato alcuni reclusi vicini alle cosche nel cuore del boss. In particolare Messina Denaro, sempre secondo quanto rivela nel suo articolo “Grandangolo”, si sarebbe interessato di quattro agenti in servizio in quel carcere e che erano originari della provincia agrigentina.

In considerazione le rivelazioni di un pentito

Questa sentenza si è in parte basata sulle dichiarazioni di un pentito ritenuto attendibile e vicino proprio a Messina Denaro. Si tratta del collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera il quale riferì che, dopo le stragi, vi era l’intenzione di eliminare gli agenti di polizia penitenziaria con l’obiettivo di lanciare un segnale intimidatorio allo Stato.

Il nodo del processo di condanna

Secondo l’accusa, sostenuta in aula dal Pm Gabriele Paci, la decisione di uccidere i due giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino fu “al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza”. Nel corso del processo il magistrato aveva fatto riferimento alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Gaspare Spatuzza, e alle intercettazioni in carcere di Totò Riina. Il superlatitante, indicato come il nuovo capo di Cosa Nostra dopo l’arresto dei boss corleonesi Riina e Provenzano, era già stato condannato all’ergastolo anche per le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano.